Il vecchio Aristide

«Quando si è vecchi, il tempo lo si assapora. Lo si assapora perché lo si conosce meglio».

Questo pensa Aristide seduto sulla panchina nel parco delle Rimembranze.

Ha settantacinque anni, Aristide. Magro come un chiodo, coi capelli bianchissimi e ancora tutti al loro posto, gli occhi blu come un cielo estivo.

Aristide guarda intorno a sé altri vecchi come lui. Alcuni sono fermi, immobili, con gli occhi vagamente vivi. Altri passeggiano lentamente, privi di meta, come stanchi animali da cortile.

Ogni giorno Aristide rimane seduto, per un’ora circa, sempre sulla stessa panchina.

E’ solo al mondo, oramai. L’ultimo della sua famiglia ancora in vita.

Ha sempre un’espressione placida sulla faccia. Quella di chi non si sorprende più di nulla. Ma non è disincanto. Perlopiù si tratta di semplice meraviglia per certe cose. Piccole cose. Come i saltelli svelti di una gazza ladra o un litigio frivolo tra due innamorati. Dettagli minimi che farebbero felice un bambino curioso.

E sorride, Aristide. Perchè ha sempre sorriso molto in vita sua. Sorrisi veri, sentiti, privi di ipocrisia.

Oggi ad Aristide gli va di andare al cinema. Ha pure uno sconto notevole vista l’età. Vorrebbe tanto vedere un film dei suoi tempi. Uno di Fellini, magari. Ma si accontenta di quello che c’è. 

Va a vedere un poliziesco, dove il cattivo uccide tutti senza una vera ragione, quasi per noia. E il commissario, un bel tenebroso che fuma come un turco, arriva sempre in ritardo sul luogo del delitto e non riesce mai a catturarlo. Il film ha un finale aperto. Il commissario che cammina su una strada solitaria. Si ferma un attimo a contemplare una luna bellissima. Stanco e sudato s’accende l’ennesima sigaretta e si rimette in cammino. Campo lungo del commissario che sparisce lentamente all’orizzonte. Nero. Titoli di coda.

Quando s’accendono le luci in sala, Aristide s’accorge di essere solo. Adesso che ha visto il film capisce bene il perché. Si alza lentamente dalla poltrona comoda della platea ed esce fuori.

Un vecchio cane accucciato sui gradini di una chiesa lo guarda con occhi pensierosi. Aristide ricambia lo sguardo. I due sembrano riconoscersi.

Così Aristide si siede accanto al cane e ripensa alla sua vita. Una bella vita. Lui non può lamentarsi. Questo lo sa. E prova un senso di vergogna. Per gli altri. Sopratutto per i giovani. Lui lo sa che la vita s’è complicata invece di diventare più semplice. Non ha risposte per questo. Nessuna frase saggia da confidare a chi verrà. Non ha parole di conforto, nessun consiglio. Guarda il mondo dai gradini della chiesa come se lo vedesse per la prima volta. Palazzi altissimi, auto velocissime, rifiuti accatastai ovunque, gente che passa parlando da sola. Guarda questo mondo e non sorride più. Lui che sorrideva sempre. Gli è passata d’un tratto la voglia. Un tizio s’avvicina minaccioso «Ehi nonno ha degli spiccioli?»

Aristide quasi non lo sente tant’è preso dal suo ragionare, poi alza lo sguardo, solleva i suoi occhi blu e guarda in faccia quella voce. E’ la voce di un ragazzino. Ha la faccia piena di lentigini. Un volto privo d’innocenza. Un volto che sembra quello di un adulto. Aristide lo scruta dall’alto in basso, con lentezza, alla maniera dei vecchi. E quando osserva i suoi piedi s’accorge che è scalzo.

«Dove abiti?» gli chiede Aristide con gli occhi ancora fissi su i suoi piedi nudi.

«Dovunque si possa mangiare e bere gratis»

«E i tuoi genitori non ti staranno cercando?»

«I miei genitori saranno in giro da qualche parte. Di preciso non lo so. E’ tanto che non li vedo. Quasi non ricordo più che faccia abbia mio padre. Quella di mia madre la ricordo ancora però. Ma tanto non importa. Non importa a nessuno.»

Il ragazzo parla e la sua voce ad Aristide sembra provenire da un altro pianeta, da un’altra dimensione.

Nel cielo che s’è abbellito di stelle piccole e luminose, la scia di un aereo appena passato sembra la pennellata di un pittore astratto. Aristide pensa che il cielo sopra la sua testa è sempre lo stesso di quando era anche lui un ragazzino. E questo pensiero fugace, appena espresso, come quella scia, s’affievolisce presto nella sua mente.

«Nonno quando hai smesso di fissare il cielo, che da li non si muove, me li dai questi spiccioli?»

Aristide non sente. Non vuole sentire. Preso com’è nella tenaglia dei suoi ricordi. Sembra ieri il suo passato. Sembra così vicino quasi da poterlo toccare. Ma è solo un’illusione. Il frutto di una prospettiva falsata. Quanto tempo è passato da allora.

«Vieni con me» dice Aristide posando di nuovo lo sguardo sul ragazzino «voglio comprarti un paio di scarpe nuove».

Il cane, che non si è mosso di un passo dai gradini della chiesa, scuote la testa scrollandosi di dosso una mosca fastidiosa. Ha il muso di un lupo e lo sguardo di un vitello. Annusa l’aria che s’è rinfrescata. L’aria fresca della sera.

Aristide e il ragazzo si alzano in piedi. Uno a fianco all’altro formano l’articolo “il”. Il cane guaisce scodinzolando.

«Va bene puoi venire con noi» dice Aristide mentre stringe la mano minuscola del ragazzo.

Per la strada se ne vanno i tre. Il vecchio, il ragazzo e il cane. Come sopravvissuti in un mondo nuovo.

«Ma dove lo troviamo un negozio aperto a quest’ora?» dice il ragazzo.

«Non preoccuparti, conosco un tizio che mi deve un favore. Ha il negozio proprio sotto a dove vive, casa e bottega» risponde il vecchio.

I tre imboccano il loro destino nella luce artificiale dei lampioni.

«Non m’hai detto ancora come ti chiami» dice il vecchio al ragazzo.

«Mi chiamo Nicola, ma tutti mi chiamano Nenè e tu?»

«Io mi chiamo Aristide, semplicemente Aristide».

Poi il vecchio si volta verso il cane, si china e lo accarezza «da oggi ti chiamerai Garibaldi» dice.

Sfumano all’orizzonte le loro ombre. Puntini che sbiadiscono come il fiato sopra un vetro. Solo la voce di Nenè ancora si sente dire «ma chi era Garibaldi?»

«E’ una lunga storia» dice Aristide «un giorno te la racconterò».

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